Press Start to Learn 2.0: tra sfide e pregiudizi

Una delle sfide più ardue per chi effettua docenze, fa divulgazione, corsi di formazione, o più in generale si rivolge a un pubblico, è senza dubbio quella di rimanere in contatto con le persone che ha davanti. È un prerequisito di ogni buona docenza, di ogni dialogo efficace, di ogni dibattito costruttivo sapersi calare, per quanto possibile, nei panni di chi si ha davanti, capire le problematiche che affronta quotidianamente, conoscere il mondo che abita.

È un dato di fatto, ma proprio per questo talvolta è facile perderlo di vista. E diventa tanto più necessario ricordarsene quanto più si parla di temi su cui, per un motivo o per l’altro (e più spesso per una serie di motivi intrecciati), grava uno stigma negativo o qualche pregiudizio.

 

 

È il caso del videogioco. Ed è soprattutto il caso del videogioco nel momento in cui se ne parla a docenti che, pur con ogni migliore intenzione, inizialmente spesso non riescono a vederlo sotto una buona luce. La seconda edizione del progetto Press Start to Learn ha fatto emergere alcuni temi interessanti che mi hanno ricordato proprio la dimensione empatica, partecipata e dialogica di ogni apprendimento – che mi hanno ricordato, in altre parole, di quanto sia fondamentale capire il mondo di chi è dall’altra parte, abitarlo, anche e soprattutto per sciogliere paure e minare pregiudizi dannosi.
Parlo in particolare del percorso dedicato al corpo docenti, che ho avuto modo di seguire al fianco di quello per studenti e studentesse al Liceo Artistico Duccio di Buoninsegna di Siena. Se, pur con qualche resistenza iniziale o pregressa, ragazze e ragazzi toccano ben presto con mano il potenziale del videogioco come strumento didattico, trasformando gli incontri (soprattutto quelli laboratoriali) in delle vere e proprie game jam cariche di interesse, creatività, perfino entusiasmo, il dialogo con i docenti è molto più delicato, attraversa fasi di attrito maggiori, momenti di debunking e riflessione collettiva che non sempre portano a un risultato immediato. Ma, proprio per questo, è anche un dialogo più ricco che mai, che fa capire tante cose e fa toccare con mano realtà che a volte, involontariamente, facendo formazione rischiamo di perdere di vista.

 

Parlando, a volte dibattendo, con docenti che sono anche genitori, ho scoperto una moltitudine di prospettive che è necessario discutere, portare al centro dello scambio, osservare da vicino.
Anzitutto, riguardanti la generalizzazione di alcuni pregiudizi che, pur arrivando al videogioco, non nascono affatto al suo interno. Per esempio, emerge a volte una convinzione generalizzata che il videogioco si trasformi in un’alternativa alla vita sociale, o funga da attrattore e anestetico anche e soprattutto quando usato per mezzo smartphone. Indagando su questa prospettiva, ho realizzato che spesso questa preoccupazione non nasce dal videogioco, ma erroneamente lo assorbe in un più ampio insieme di tecnologie additive, para-sociali e pervasive: ovvero dai social media. A questo punto sensibilizzare sul videogioco diventa tutto un tracciare linee di demarcazione: distinguere le sue potenziali logiche additive da quelle di Instagram, o TikTok; distinguere le sue interazioni para-sociali da quelle di BeReal; distinguere le sue potenzialità dai rischi connessi a tecnologie che potenzialmente sono interpretate come un rischio per la socializzazione, per il contatto con l’altro e così via.

 

 

Altre volte, la convinzione che il videogioco sia “dannoso” deriva invece dalla parzialità di una prospettiva maturata a stretto contatto con un campione ristretto di utenza. Docenti/genitori che vedono i figli videogiocare per tutta la notte a titoli competitivi e inveire contro lo schermo, per esempio, e che si convincono quindi che quello sia il videogioco, che quello sia il portato emotivo, cognitivo e culturale del medium. In questo caso ‘alfabetizzazione videoludica’ diventa soprattutto svelamento di una complessità potenziale. Di forme alternative di narrazione, di esperienza, di emozione. In dialogo con altri media, ovviamente: del resto, anche gli scaffali vicini all’ingresso di una libreria sono spesso riempiti di volumi meno interessanti di altri, o pensati per un pubblico più generalista; anche i film campioni d’incasso a volte ci possono sembrare frivoli, o culturalmente pericolosi. Ma non significa che il cinema sia un medium da evitare, o che la letteratura sia da consumarsi a piccole dosi. Scoprire la complessità di un medium significa capire che esistono tante forme, da quelle competitive a quella più strettamente narrative, da quelle più generaliste a quelle più di nicchia. E che non tutte sono uguali, ma che ognuna ha le sue specificità, il suo pubblico di riferimento, il suo potenziale comunicativo, le sue implicazioni retoriche.

 

In entrambi i casi e in molti altri, ho avuto modo di approcciare il videogioco da prospettive diverse dalla mia. E anche diverse da quelle che generalmente, facendo formazione, mi abituo a conoscere e controbattere. Perché è facile, anche da docente, iniziare a combattere contro i mulini a vento e parlare di videogiochi perdendo di vista la percezione reale degli stessi. In Press Start to Learn 2.0 è stato necessario invece che il dialogo passasse proprio attraverso il “videogioco” come fatto culturale reale, non ideale, così come viene interpretato e discusso, vissuto da chi non lo conosce a sufficienza. È da qui che deve partire ogni buona formazione e sensibilizzazione. Ed è da qui che deve partire ogni buon dialogo, sia esso con studentesse o studenti, docenti, o genitori.

 

Diario #2 a cura di Stefano Caselli

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L’iniziativa Press Start to Learn 2.0 – proposta dall’Associazione IVIPRO in partnership con il Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin” dell’Università di Bologna – è realizzata nell’ambito del Piano Nazionale Cinema e Immagini per la Scuola promosso da MiC-Ministero della Cultura e MIM-Ministero dell’Istruzione e del Merito