Nel corso del progetto Press Start to Learn ho incontrato le classi al termine degli incontri tenuti da Andrea Dresseno e Rosy Nardone. Il mio compito era seguire studenti e studentesse nell’ideazione di concept videoludici legati al territorio italiano. Ogni classe è stata divisa in piccoli gruppi e ognuno poteva scegliere a quale particolare evento o ambientazione legare il proprio videogioco. In alcuni casi, in accordo con i docenti, si è deciso di puntare sul territorio locale, mentre in altri casi le scelte sono emerse dalla consultazione del database narrativo di IVIPRO.
Ai gruppi è stato fornito un modello di Game Design Document basato sui GDD che vengono solitamente utilizzati all’interno degli studi di sviluppo, ovviamente in una versione semplificata adattata sia al contesto scolastico che alle ore a disposizione. I principali focus hanno riguardato la componente artistica, la narrazione e il gameplay. A seconda dei contesti, alcuni gruppi hanno sviluppato maggiormente alcuni aspetti rispetto ad altri. A volte con scelte inaspettate. Se, grosso modo, mi aspettavo che le classi dell’artistico avrebbero prodotto un maggior numero di bozzetti e concept art, mi ha stupito trovare in un’altra classe un ragazzo che, per esempio, aveva composto la musica per il menu del videogioco che stavano immaginando.
La collaborazione dei docenti ha inoltre prodotto ottimi risultati. Alcuni di loro hanno infatti deciso, spontaneamente, di operare in vario modo come “facilitatori”, per esempio consigliando a studentesse e studenti come dividersi al meglio i compiti all’interno dei gruppi o aiutandoli a ragionare su ciò che stavano immaginando. Non sono mancati consigli più mirati su alcuni punti legati alle proprie materie. Un docente esperto di fotografia e grafica, per esempio, ha fornito preziosi suggerimenti sui font da utilizzare per il titolo di ciascun videogioco, a seconda del mood che il gruppo voleva trasmettere.
Il fulcro di questa fase del percorso Press Start to Learn è stato, senza dubbio, il tema dell’educazione alla complessità progettuale. Ho riscontrato due tendenze opposte nella maggior parte dei gruppi, nel loro approccio al lavoro. Da un lato, gruppi che rischiavano di perdersi in minuzie o erano bloccati dal ventaglio delle scelte che si palesavano nella loro mente. Ho visto soprattutto persone a rischio di arenarsi per il nome di un personaggio secondario… che è certamente un elemento su cui poter riflettere, ma non quando il resto del GDD è meno che abbozzato. Anche la scelta dei luoghi generava talvolta un turbinio di proposte, davanti alle quali il gruppo non riusciva a decidere la più interessante. In tal senso, è stato utile darsi delle tempistiche. Sulla scelta del luogo, per esempio, veniva stabilito un tempo entro cui prendere una decisione (una ventina di minuti circa, variabili a seconda del contesto e della risposta dei gruppi). Ed era poi utile osservare periodicamente il lavoro svolto, per controllare che un gruppo non restasse “impantanato” su qualche scelta marginale perdendo il quadro d’insieme. Trovo sia stato educativo e sfidante, perché è uno dei due aspetti dell’educazione alla complessità: tenere d’occhio l’insieme, soprattutto quando si ha un tempo ben definito, e saper dare priorità a certi elementi rispetto ad altri.
C’è però anche l’altra faccia della medaglia. Alcuni gruppi partivano subito con motivazione, prendendo decisioni in rapida sequenza senza fermarsi mai. In quei casi bisognava procedere con suggestioni del tutto differenti: invitarli ad approfondire, a non prendere sempre per buona la prima cosa che gli passava per la testa, a spiegare meglio quel che intendevano, e che a volte era relativamente chiaro nei loro pensieri, ma non sulla carta. Molte forme comunicative in cui sono immersi, sui social, sono pensate per l’estrema sintesi, per cui è bene che ci siano dei momenti in cui ci si trova ad avere un approccio differente, andando invece ad ampliare ed espandere i concetti proposti, sciogliendo i passaggi più oscuri e dettagliandone i vari punti.
Questa esperienza mi ha confermato quanto sia necessario sviluppare una game literacy, renderla parte integrante di percorsi di studio e riflessione, perché non sempre giocare ai (video)giochi aiuta a capirli per davvero.
L’ho visto emergere in alcuni casi quando il gruppo arrivava a doversi occupare del gameplay. Per alcuni, questa cosa si traduceva nel “scriviamo a quale azione corrisponde ciascun pulsante del controller”. La cosa interessante è che andavano anche ad “azzeccare” diverse convenzioni dei generi videoludici (per esempio il fatto che il pulsante “Triangolo” della PlayStation può essere abbinato all’apertura dell’inventario), segno che avevano fatto esperienza di diversi videogiochi. Faticavano però a descrivere l’effettivo gameplay del videogioco che stavano immaginando, a spiegare come potesse funzionare l’interazione al suo interno, quali fossero gli obiettivi da raggiungere e molto altro. Serviva, allora, fornire degli esempi e aiutarli a ragionare. A volte, con qualche input, il processo si sbloccava subito ed emergevano ragionamenti molto più interessanti, approfonditi e mirati. Ne ricordo per esempio uno su un approccio stealth, con delle considerazioni sul quantitativo di rumore emesso, sulla possibilità di muoversi più rapidi ma esposti (che definirei una scelta alto rischio/alto guadagno) rispetto al mettere in campo strategie più sicure per avanzare con grande lentezza (basso rischio/basso guadagno).
A volte, insomma, è sufficiente qualche stimolo per indirizzare verso un giusto approccio alla complessità, soprattutto quando c’è – alla base – un genuino interesse verso il progetto.
Diario #3 a cura di Francesco Toniolo
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L’iniziativa Press Start to Learn – proposta dall’Associazione IVIPRO in partnership con il Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin” dell’Università di Bologna – è realizzata nell’ambito del Piano Nazionale Cinema e Immagini per la Scuola promosso da MiC-Ministero della Cultura e MIM-Ministero dell’Istruzione e del Merito