Nel panorama videoludico italiano non si è mai affermata una vera e propria tradizione horror: il caso è abbastanza curioso, soprattutto alla luce degli illustri esempi provenienti dal cinema, dove il made in Italy ha raggiunto picchi di fama mondiale: basterà citare registi come Dario Argento con Profondo Rosso (1975) e Suspiria (1977), oppure altri capisaldi del genere come La casa delle finestre che ridono (P. Avati, 1976) o Reazione a catena (M. Bava, 1971).
Esempi videoludici che potrebbero mostrare una certa affinità con questa tradizione sono Haunting Ground, ambientato in un immaginario castello italiano, o Clock Tower, in cui si palesa l’influenza di Phenomena di Dario Argento (1985).
Sin dagli anni Novanta le potenzialità del videogioco hanno concesso parecchio spazio al genere horror. Il vero boom, indubbiamente, è arrivato con il genere del survival horror, con Resident Evil e Silent Hill a guidare la rivoluzione (sulle orme di Alone in the Dark). Se da una parte opere simili hanno esaltato le potenzialità del medium videoludico, dall’altra hanno inaugurato un processo di stereotipizzazione tra il pubblico dei gamer: l’horror, nell’immaginario, coincide sempre col survival. Il genere, tuttavia, offre altre sfumature e declinazioni. IVIPRO ha preso in esame tre produzioni italiane – Anna, The Town of Light e The Land of Pain – che rappresentano casi analizzabili da diverse prospettive. Denominatore comune di queste opere è infatti il territorio.
Una deturpata faccia zombie o una vecchia segheria dall’atmosfera cupa non bastano per incasellare un videogame nel genere horror. La ricchezza del folclore legato al territorio valdostano ha influito sullo storytelling del gioco Anna e, come ci racconta Simone Tagliaferri, «l’intera narrazione è fondata sulla suggestione nata da una serie di culti alpini precristiani legati alla terra, in particolare alla montagna, su cui abbiamo innestato altri elementi di cultura generale per cercare di creare una cornice che fosse interessante e non scontata. Più in generale, Anna è pieno di riferimenti alla cultura della Val D’Ayas, il territorio dove si trova la segheria nella realtà, e alcuni dei puzzle sono nati da essa». La vera originalità sta nel fatto che persino i piccoli elementi possono generare inquietudine, se dotati di una vita propria e legati a una storia: «la maggior parte degli oggetti che decorano le stanze sono riproduzioni fedeli di oggetti reali, alcuni abbandonati nella segheria stessa. Per realizzarli li abbiamo prima fotografati come riferimento e quindi modellati per poi inserirli nel gioco. Insomma, in buona sostanza abbiamo cercato di rendere il più possibile le atmosfere di quei luoghi, partendo da essi, perché le ritenevamo essenziali per trasmettere ciò che volevamo».
Tutte le storie legate al folclore spesso mettono paura perché riguardano episodi del passato ai quali non riusciamo a dare una spiegazione razionale. La realizzazione del gioco è servita al team per sviluppare un rapporto diverso con il territorio e le storie inspiegabili che vi sono legate? «In realtà la conoscenza del luogo è precedente alla concezione del gioco. Il director di Anna, Alessandro Monopoli, ama quei luoghi. Li frequentava da molto prima che nascesse Anna. Diciamo che la segheria è stata scelta proprio perché per lui è sempre stato un luogo significativo e affascinante. La scoperta delle leggende locali è venuta poi e, come dicevo, queste sono diventate la base della narrazione. Insomma, sono servite ad arricchire una visione che era già vivida: Anna è prima di tutto un luogo inquietante cui abbiamo legato delle storie che comunque lo circondano da anni o addirittura da secoli».
Un gioco che affronta una tematica sociale tipicamente legata al genere horror è The Town of Light. In questo caso la premessa di genere lascia ben presto spazio a una critica arguta e a una riflessione su un tema molto delicato e strettamente connesso alla nostra storia. Luca Dalcò ci racconta le sue ricerche, l’incontro con le storie di diversi degenti degli ex ospedali psichiatrici e di quanto sia stato difficile affrontare queste narrazioni: «The Town of Light è stata un’esperienza prevalentemente emotiva. Ho cercato di ricostruire la storia della protagonista nei minimi dettagli per poter sviluppare una crescente empatia nei suoi confronti, per poter avere la sensazione di conoscerla e di capirla. Tutto questo è stato possibile grazie alle testimonianze di chi soffre di problemi psichici e di chi ha vissuto il manicomio sulla propria pelle. Testi come Invito al manicomio di Irene Lizza o Diario di una schizofrenica di Marguerite A. Sechehaye, o ancora Cinque anni in manicomio di Amilcare Marescalchi, sono state le pietre con cui è stato possibile edificare la storia di Renée. Ho cercato di perdermi completamente in questi racconti, per poterne cogliere gli ingredienti essenziali. È stata un’esperienza a tratti dolorosa, ma estremamente formativa e affascinante». La tematica è di forte impatto poiché ancora oggi in Italia, nonostante la Legge Basaglia, vengono taciuti molti episodi legati al trattamento della malattia mentale, forse per evitare di scomodare qualcosa che difficilmente si potrebbe giustificare. Si tratta di una questione anche politica: «la storia dell’istituzione manicomiale è poco nota, ancora troppo vicina a noi per poterne parlare con distacco. La sua memoria ferisce troppi orgogli per poter essere materia di un dibattito sereno. La psichiatria ha fatto grandi passi avanti e oggi siamo fortunatamente lontanissimi dai metodi di qualche decennio fa; tuttavia la struttura totalizzante che ha sostenuto il concetto stesso di manicomio è stata lunga da estirpare. È stato un passaggio culturale enorme. Dobbiamo ricordare che la legge n. 180/1978, che ha stabilito la chiusura dei manicomi in cui erano stipate circa 100.000 persone, ha richiesto spesso tempi lunghissimi per la sua reale applicazione, fino a 20 anni. Gli ultimi istituti sono stati chiusi alla fine degli anni Novanta. Gli OPG (ospedale psichiatrici giudiziari), che erano sfuggiti alla legge, sono stati chiusi definitivamente quest’anno! A seguito della commissione d’inchiesta Marino del 2012, una legge del 2015 ne ha stabilito la chiusura e con i tempi di attuazione siamo arrivati al 20 febbraio 2017, quando il ministro Lorenzin ha sancito le modalità con cui verrà monitorata l’applicazione della legge. Stiamo parlando di attualità, non più di storia. Basta cercare su Youtube i filmati della “commissione Marino” per scoprire qualcosa di incredibilmente doloroso e che è difficile da accettare e dimenticare, che ci fa vergognare perché, in fondo, si tratta di una responsabilità collettiva».
Il team di The Town of Light ha dialogato con il Comune di Volterra: «Penso che risulti evidente come l’argomento sia difficile e spinoso e allo stesso tempo quanto sia importante parlarne. Volterra all’inizio ci ha guardato con una certa diffidenza, ma poi le porte si sono aperte e abbiamo avuto grandissimo sostegno e fiducia da parte del Comune che, pochi giorni fa, ha partecipato alla presentazione ufficiale alla stampa internazionale della versione console del gioco. La presentazione si è svolta proprio nel complesso dell’ex ospedale psichiatrico di Volterra».
Esperienza collettiva ed esperienza politico-sociale possono convivere con esempi più intimi e biografici e anche con il soprannaturale, come nel caso di The Land of Pain – opera attualmente in lavorazione. I luoghi presi in esame da Alessandro Guzzo sono l’Altopiano di Asiago e in particolare il comune di Enego, «i posti in cui sono cresciuto. Da bambino mi divertivo a immaginare cosa ci fosse all’interno delle vecchie case abbandonate nei boschi e in The Land of Pain ho potuto ricrearle sfruttando l’immaginazione in un contesto horror. Proprio sull’altopiano sono presenti piccole contrade isolate che sembrano essersi fermate nel tempo; questi luoghi lontani dalla realtà cittadina (dove sono ritornato per un sopralluogo per immortalare vecchi edifici, oggetti e altro) possono essere un’ottima fonte di ispirazione». A chiunque sarà capitato di immaginare il modo in cui un’idilliaca scampagnata può trasformarsi in qualcos’altro di inquietante; nel gioco è davvero possibile sentire l’autentico richiamo di Cthulhu (ricollegandoci a un’ispirazione lovecraftiana più volte sottolineata dalle anteprime del gioco): «The Land of Pain racconta di come un evento inaspettato possa trasformare una tranquilla giornata in un incubo. Il gioco ricrea un ambiente rassicurante e familiare per il protagonista. Egli infatti si reca nella sua vecchia baita per rilassarsi. Un misterioso evento catapulterà il protagonista in un luogo non più sicuro, ma inquietante e sconosciuto. Il richiamo lovecraftiano sarà sempre più presente e concreto nell’avventura man mano che si proseguirà. Come nei racconti di Lovecraft, l’angoscia e il pericolo aumentano, passo dopo passo. Il protagonista dovrà trovare una via di salvezza e tentare di sopravvivere».
L’orrore che nasce dal territorio può prendere strade differenti: può legarsi al folclore, oppure svelare una pagina difficile della nostra società, o ancora trarre ispirazione dai ricordi del passato. Può contaminarsi con la letteratura o proporre riflessioni importanti. L’horror videoludico italiano potrebbe trovare una propria identità esplorando cultura e tradizioni?
Articolo a cura di Daniele Barresi