Con l’imminente Father and Son il Museo Archeologico Nazionale di Napoli si affaccia al mondo dei videogiochi. Il titolo – la cui grafica suggestiva è stata affidata all’artista inglese Sean Wenham, già autore del breve ma affascinante The End of the World – è l’ultima tappa di un lungo percorso che ha visto i musei confrontarsi di frequente col linguaggio videoludico.
Nel caso di Father and Son al centro della narrazione non c’è più la grigia Newcastle del titolo precedente di Wenham, bensì il capoluogo campano, con la sua carica pittorica e la sua storia secolare. La sensibilità messa in campo dal MANN è un segnale positivo, che testimonia una volta di più quanto i musei possano diventare luogo di sperimentazione.
Nel 2016 il Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, in collaborazione con Sony España, ha prodotto un gioco narrativo ambientato all’interno dei suoi spazi. Il mondo di Nubla (disponibile su PlayStation 4) è un platform-puzzle esteticamente raffinato, che prende ispirazione dallo stile di celebri dipinti e contamina con l’arte i suoi enigmi. Un’esperienza relativamente veloce – si può arrivare ai titoli di coda in poco più di un’ora e mezza – ma interessante perché slegata da spiccate finalità promozionali. Tornando per un attimo a quel mondo archeologico da cui eravamo partiti, il caso del recente The Mooseman – pubblicato su PC lo scorso febbraio – si dimostra particolarmente meritevole d’attenzione.
Abbiamo avuto modo di confrontarci con Vladimir Beletsky, uno degli sviluppatori di questa avventura a scorrimento orizzontale ispirata alla mitologia delle antiche popolazioni degli Urali. Grazie alla collaborazione con il Perm Regional Museum, e in particolare con il curatore dell’area archeologica del museo, gli sviluppatori sono riusciti a rendere credibile e fondato il racconto. Gli artefatti presenti all’interno del gioco provengono in maggioranza proprio dai musei della zona di Perm, area rilevante dal punto di vista dei ritrovamenti archeologici, ma anche da altri musei russi. Preziosa anche la consulenza di uno scienziato dell’Accademia russa delle scienze, in particolare sul fronte dello studio delle popolazioni locali.
The Mooseman è a tutti gli effetti un gioco commerciale che evidenzia quanto il dialogo tra sviluppatori e istituzioni culturali possa dar vita a contenuti di qualità in grado di attirare l’attenzione dei giocatori.
Tornando però in Italia, come non citare l’esperienza del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano? Prima ancora di realizzare nel 2015 il gioco-app Toti VR – una breve avventura sulla falsariga di Myst che consente a chiunque di esplorare da casa, attraverso il proprio smartphone e un visore tipo Google Cardboard, il celebre sottomarino Toti – il museo milanese si è cimentato in opere di varia natura fruibili via web o all’interno degli spazi del museo. Tra le tante vogliamo citare Chimpeople, un breve gestionale à la Sim City in cui il giocatore è chiamato a supervisionare l’andamento di uno stabilimento chimico. Attraverso la dimensione del gioco, e attingendo da un genere ben codificato come lo strategico/gestionale, anche un tema di nicchia può trasformarsi in qualcosa di coinvolgente.
Diversa l’operazione compiuta dalla Triennale di Milano, che con la Triennale Game Collection ha realizzato una vera e propria mostra virtuale di videogiochi concepiti originariamente per la XXI Triennale da alcuni rinomati game designer internazionali.
Di nuovo all’estero, questa volta nel Regno Unito, per citare altri casi che ci hanno colpito. Transmission è un vero e proprio puzzle game, prodotto dal Museo della Scienza di Londra, che invita il giocatore a riflettere sull’impatto delle odierne reti di comunicazione. Un puzzle che funziona perché legato “indirettamente” al museo, godibile da qualsiasi appassionato (a noi ha ricordato per alcuni aspetti le sperimentazioni estetiche e sonore di Tetsuya Mizuguchi). Se il Victoria and Albert Museum, con Strawberry Thief, consente al giocatore di riportare in vita le creazioni dell’artista William Morris, è sorprendente l’effetto che il celebre Minecraft ha avuto sui musei. La Tate Gallery, per esempio, ha realizzato alcune mappe esplorabili ispirate ai lavori di André Derain e Peter Blake. Sul sito ufficiale si fa menzione di altre due mappe, in lavorazione, dedicate ai surrealisti: Dalí, Magritte, De Chirico.
Il Museum of London si è spinto oltre, raccontando all’interno del mondo di Minecraft il Grande incendio di Londra del 1666. The Great Fire 1666 stupisce per l’accurata e blocchettosa ricostruzione della Londra del XVII secolo.
Gli esempi sarebbero ancora numerosi. Vedi gli altri lavori del Museo della Scienza di Londra, del National Museum of Scotland o, andando oltreoceano, della New York Hall of Science. Oppure, tornando nuovamente in Italia e all’archeologia, il caso di Pleistostation, serious game creato da ITABC – CNR nel 2011 per il Museo di Casal de’ Pazzi a Roma e basato sul confronto tra la vita di oggi e la vita nel pleistocene. Proprio l’ITABC ha preso recentemente parte a un progetto europeo (REVEAL) che mira alla realizzazione di videogiochi in VR per la valorizzazione del patrimonio culturale.
Gli esempi sarebbero ancora numerosi, si diceva, ed estremamente vari per natura, genere e target. Quel che emerge è un contesto culturale in fermento in cui i musei possono rivestire un ruolo chiave sia come committenti, sia come fornitori di contenuti.
A cura di Andrea Dresseno